Intervista a Pino Roveredo: "Grazie alla lingua dei segni mi sono avvicinato alla scrittura"
di A. Fasano.
Pino Roveredo è uno scrittore e giornalista triestino. Nel 2005 esce la raccolta di racconti Mandami a dire, con cui l’autore vince il Premio Campiello. Tra gli altri suoi libri Capriole in salita (2006), Caracreatura (2007), Mio padre votava Berlinguer (2012) e Ballando con Cecilia (2014). Roveredo è inoltre garante regionale per diritti dei detenuti e fa parte di molte organizzazioni che si occupano della tutela di categorie disagiate.
Dopo aver letto Il grido del gabbiano, autobiografia di Emmanuelle Laborit, figlia sorda nata da genitori udenti, desideravo conoscere l’altra faccia della medaglia, ossia l’esperienza di vita e di crescita di un udente con entrambi i genitori sordi. Ho avuto la fortuna di conoscere Pino Roveredo durante un incontro di presentazione del suo ultimo libro, Mastica e sputa, tenutosi venerdì 8 aprile 2016 presso la libreria padovana Laformadelibro. Sapevo, per aver letto alcuni dei suoi libri, che entrambi i genitori di Roveredo erano sordi: l’idea di intervistarlo è nata di conseguenza.
Presentazione del libro "Mastica e sputa" presso la libreria Laformadelibro.
Da sinistra: Mario Grasso, attore della compagnia Instabile del Friuli Venezia Giulia, Pino Roveredo e Alberta Pierobon, giornalista de Il Mattino di Padova.
Sei cresciuto in una famiglia con entrambi i genitori sordi. Da piccolo come vedevi le due lingue, la LIS e l’italiano?
Sono cresciuto con una sola lingua, la LIS, la lingua dei segni italiana. Ho imparato la lingua dei segni dai miei genitori, esattamente come un bambino che nasce in una famiglia di udenti impara l’italiano come prima lingua. Per me comunicare significava esclusivamente usare la LIS. Anzi, nei casi in cui ricevevamo visite di udenti, ero infastidito dal sentire parlare e dal rumore di queste conversazioni. Quando poi ho cominciato a giocare con i bimbi del quartiere, ho imparato a parlare la mia prima lingua orale, il dialetto triestino. Solo verso i sei anni, quando ho iniziato la scuola elementare, ho dovuto imparare la lingua italiana, che è stata per me un grosso ostacolo a scuola, tanto che ho sempre avuto dei voti molto bassi in questa materia, quasi non fosse la mia lingua. Anche perché io continuavo, e continuerei tutt’oggi, a preferire la LIS: è una lingua molto più immediata, più intima.
A questo punto, viene naturale chiederti se ti ricordi qual è stato il tuo primo segno?
Il mio primo segno è stato “FAME”, o almeno così mi hanno detto i miei genitori.
Come si interagisce in una casa di genitori sordi e figli udenti?
Regna il silenzio, questa è la cosa straordinaria. Io sono infinitamente grato ai miei genitori per avermi insegnato prima il silenzio che il rumore, ma soprattutto per avermi insegnato delle norme di comportamento che per i sordi sono obbligatorie: ad esempio la lingua dei segni prevede che le persone si guardino negli occhi, e la comunicazione non deve essere mai interrotta. Sono forme di educazione che mi sono servite molto nella vita, anche nella mia professione di scrittore.
Che lingua parlavi con i tuoi fratelli in presenza dei vostri genitori? E quando eravate da soli, oppure fuori casa?
Molto spesso con la LIS, perché così era comprensibile anche ai nostri genitori. L’uso della lingua dei segni tra noi fratelli è andato avanti anche con il passare degli anni e continua tutt’ora… ogni tanto ci concediamo qualche momento di “linguaggio silenzioso”.
Avete mai approfittato della lingua italiana per dirvi cose che i vostri genitori non potevano sentire?
Forse è successo in qualche momento di rabbia, ma in modo molto veloce. Noi figli rispettavamo i nostri genitori e amavamo molto la loro lingua, nonostante la diversità della nostra famiglia ci abbia spesso esposto a episodi di cattiveria e di stupidità: ad esempio, quando ero piccolo, la gente del quartiere non mi chiamava mai Pino, ma ero indicato come “il figlio dei muti”. Ad ogni modo questi nomignoli non ci hanno mai disturbato più di tanto.
Riguardo l’utilizzo della lingua italiana per escludere dal discorso i nostri genitori… semmai è vero il contrario: quando siamo cresciuti, mio fratello ed io ci divertivamo ad andare nei locali e chiacchierare tra di noi in LIS, attirando l’attenzione e la curiosità degli altri ragazzi… quando alla fine chiedevamo il conto con la voce, rimanevano tutti basiti. Era un gioco che ci piaceva e che ci regalava un’intimità che tutti gli altri non potevano avere.
La grande passione con cui ti dedichi ai tuoi moltissimi impegni nel campo sociale deriva dalla tua esperienza di vita?
Me lo sono chiesto tante volte e ancora non sono riuscito a capirlo. Sicuramente sono cresciuto in una famiglia disagiata, anche se non me ne sono reso conto fino ad una certa età. Con il tempo, però, ho capito che la mia famiglia era, senza ombra di dubbio, diversa: ricordo la grande rabbia di mio padre, che poi si è trasformata in alcolismo, per il fatto che i sordi, come i cechi e come altri disabili, venivano presi per scemi e ritardati, come se avessero anche una menomazione mentale. Credo, dunque, che da questa situazione, sia nata in me una sensibilità particolare nei confronti delle realtà sociali più disagiate. Però è anche vero che ognuno di noi è portato per cose diverse: ad esempio mio fratello, pur avendo vissuto la medesima situazione, lavora in un ambito completamente diverso dal mio.
Foto tratte dallo spettacolo "D come donna".
Come mai hai scelto di garantire il servizio di interpretariato in LIS durante lo spettacolo D come donna a Padova? L’avevi già fatto altre volte durante i tuoi spettacoli?
Era una cosa che desideravo fare da tanto, forse per far rinascere questo modo di vivere in simbiosi con i miei genitori, anche se ora non ci sono più. Finché penso a loro, finché gli scrivo, per me sono vivi. È stato un modo per spiegare lo spettacolo anche a loro. Ho fatto questa scelta anche per mostrare la bellezza dei segni, dei movimenti, della musica.
Avevo già fatto una prima esperienza portando in teatro la LIS, ma in quel caso ero io che segnavo… La cosa ha generato parecchia curiosità, soprattutto tra amici e conoscenti, tanto che molti di loro, qualche volta, mi chiedono di parlar loro con la lingua dei segni… ma io mi rifiuto sempre, quasi fosse una mia intimità che non voglio sprecare per la curiosità degli altri.
Leggendo due dei tuoi libri (Capriole in salita e Mio padre votava Berlinguer), ho notato che spesso ti esprimi tramite immagini piuttosto che con astratti concetti. Pensi che il modo in cui scrivi sia stato influenzato dalla lingua dei segni?
Si, è assolutamente così. La lingua dei segni è stata la prima che ho imparato… ed è questa lingua ad avermi fatto sentire il bisogno di scrivere. La lingua dei segni è fantasia. Sono convinto che, se non avessi avuto due genitori sordi, scriverei in modo completamente diverso…anzi, probabilmente non scriverei affatto. La lingua dei segni ha avuto un’influenza strutturale su di me, non solo sul modo in cui mi esprimo, ma anche sul modo in cui nascono i miei pensieri. È la mia lingua, di conseguenza è naturale sostenere che la mia scrittura è stata linguisticamente influenzata da essa.
Poi sono molto attento alla musicalità del linguaggio. Quando scrivo spesso parlo da solo, rido, piango… Di tutte queste conversazioni con me stesso, riporto su carta ciò che risulta musicale, piacevole all’ascolto. Inoltre sono un grande osservatore… guardo sempre tutto con molta curiosità, cercando di capire quello che mi succede intorno, anche le cose più banali.
Penso che l’esigenza di descrivere per immagini, più che raccontare, derivi dall’insieme di tutte queste mie caratteristiche.
Mi piacerebbe concludere con una frase tratta dal racconto “Parlare con le mani, ascoltare con gli occhi” (in Mandami a dire) dove l’autore, rivolgendosi ai suoi genitori, parla del suo amore per la scrittura:
«La devo a voi questa passione, a voi che mi avete insegnato la forza straordinaria del silenzio prima che il fastidio del rumore, così che ho potuto iniziare a scrivere all’età di due anni, e senza penne o matite ma grazie al movimento straordinario delle mani dentro alla lingua dei segni. Un movimento agile, profondo, sottile, che crescendo ho poi sfogato sulla libertà dei fogli».